Dopo cinque anni e altrettanti album, è arrivato il momento di
avanzare qualche perplessità sulla produzione di Vanni Fabbri, aka La
Tosse Grassa. Uno che non ha mai saputo rinnovarsi di un millimetro:
stesse situazioni, stessi mash-up, stesse bestemmie. Ecco, pensate sul
serio che una critica simile possa essere mossa nei confronti del
musicista marchigiano? Dai, facciamo i seri: qualcuno pretende forse che
un giorno Fedez (nome scelto non a caso) possa convertirsi alla tradizione klezmer o che Zucchero la
finisca di scopiazzare gli spartiti altrui? E allora perché non dare a
La Tosse Grassa quel che è della Tosse Grassa? Perché non riconoscere
che la sua formula continua a funzionare? Perché non ammettere che i
suoi copia e incolla sono efficaci come sempre?
Da queste parti non c’è problema. Facile definire “TG5” come il
solito condensato di musica altrui rimescolato nell’usuale modo
scientifico, accompagnato dalla competenza e dalla genialità alle quali
Vanni ci ha abituato. Il gioco di riconoscere chi e cosa si nasconde tra
le canzoni della Tosse Grassa è un must. Anche stavolta il divertimento
è assicurato, citazioni d’obbligo per l’“esordio” dei Velvet Underground e
per l’inserimento della sigla dello spot (quello degli anni ’70) del
Fernet Branca. Ma in mezzo al calderone c’è tanto, tanto di più.
Anche la veemenza dei testi del Fabbri gioca un ruolo fondamentale:
irriverenti e sporcaccioni, autoironici (“Sono io l’autocritico
musicale”), spesso legati al natio borgo selvaggio e dintorni. Tuttavia
non sempre facili da comprendere (come “Solo Battisti”, un collage di
frasi e titoli di canzoni made by Mogol) e forse un pizzico meno brutali
che in passato: mancano pezzi come “Lo vuoi nel culo”, o “Matrimonio
gay”, peraltro assurti a ruolo di classici. Tutto quel che volete, ma
non si dica che la Tosse Grassa non sia in grado di andare oltre se
stesso: non è quel che cerca. E, soprattutto, non è quel che il suo
zoccolo duro ha intenzione di chiedergli.
Giuseppe Catani, ROCKIT
www.rockit.it
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