È noto che, per approcciarsi al gentil sesso mentre si è in giro per locali a San Lorenzo, nulla funziona meglio che una snocciolata di sentenze sullo schifo della musica contemporanea.
O, in alternativa, la promessa di far assaggiare un fumo buonissimo che viene dal Pakistan.
Diciamocelo: sopraggiunti i vent’anni, e volendo toccare
finalmente con mano questa fregna alternativa la cui esistenza
paventavate, ancora adolescenti, guardando “Come te nessuno mai”, avete
bisogno di un terreno su cui giocare sicuro. E l’indie italiano è meglio
di un compleanno di diciott’anni in cui non tutti gli invitati sono
ancora maggiorenni e qualcuno ha portato del rum marca EuroSpin.
Va considerato però che le vacche grasse sono già state
munte. Molte strade sono già state battute, la prima falciatura di fieno
è stata fatta, il buffet è stato servito e sono rimasti solo i dolci
con la crema rovinata dall’orribile fettina di kiwi e colla di pesce in
cima, insomma: a blaterare di Vasco Brondi e Pierpaolo Capovilla non vi
beccate nemmeno le mutandine di una che studia giurisprudenza e sta
scoprendo ora l’alternative italiano perché l’anno prossimo va in
erasmus a Maastricht.
Voglio essere sincero: anche quando quella sopracitata
era roba in grado di farti sapere quante otturazioni avesse in bocca la
tua amichetta del mare, io non sono mai riuscito a simulare abbastanza
interesse da parlarne.
Sarà perché vengo da un posto così ottuso e sprofondato a
sud che se ci avesse vissuto Francesco Bianconi sarebbe stato pestato e
derubato un giorno sì e l’altro pure, a me questo ritorno ibridato a
degli anni ’80 che non sono mai esistiti, mi scartavetra i coglioni.
Sì, avete capito bene. Ho detto “a me mi”.
E siccome questo è anche un blog di servizio sociale, e
il costo delle magliette di Jethro Tull richiede almeno un ritorno in
termini di culi palpati, non sono qui a fare semplicemente una
recensione.
Sono qui per presentarvi un nuovo argomento di
conversazione che si allinea accuratamente con la casta delle finte
zozze maledette.
Sono qui per aiutarvi a trovare qualcuna che ve la dia
senza che poi il giorno dopo dobbiate andarvi a cercare su Google i
sintomi delle malattie veneree.
Sono qui per garantirvi di poter andare oltre una
nottata di citazioni con una che sembra la sacerdotessa del Karni Mata,
il celebre tempio indiano dedicato ai topi, e poi vi offre del sesso
imbarazzato e sbrigativo in una tavernetta con finiture di pregio a
rione Monti.
La Tosse Grassa non si può dire che sia proprio un
gruppo (e già qui le più sensibili avvertiranno un certo pizzicore al
livello dei capezzoli). Ad esibirsi nei live è un trentenne sfatto con
la faccia da giocatore di Dungeons and Dragons all’ultimo stadio che,
insieme a due ballerini (?), declama testi definiti da tutti i blog di
musica che ho visitato “feroci, brutali, scorretti: pugni in faccia al
buonismo”.
Siccome la letteratura accademica ha ampiamente
dimostrato che i canoni valutativi si conformano a quello che viene
scritto su RockIt e Vice, e siccome mi hanno chiesto di recensire
artisti che abbiano pagine SoundCloud perché quando postiamo le loro
playlist “viene fuori un player fighissimo”, ho deciso che La Tosse
Grassa mi piace. Anche se ad un primo ascolto fa cagare.
Alcune note sul nostro main man.
Mosso dall’odio verso lo star-system della musica
indipendente de noantri, e da una certa tendenza a disprezzare le
groupies che fanno la fila per spompinare Davide Toffolo (siccome sono
segretamente berlusconiano dirò tra le righe che è solo perché pur
essendo un cantante non riesce a ficcare), La Tosse Grassa ha intrapreso
nel 2011 un progetto industrial-pop-indie presto divenuto fenomeno di
culto. Con due album all’attivo, egli si esibisce nelle più prestigiose
location d’Italia come
“quel-posto-strafigo-che-conosce-il-mio-rappresentante-d’istituto”.
La poetica del disadattato in questione è un originale
susseguirsi di giochi di parole e switch semantici dalle molteplici
interpretazioni, che punzecchiano temi sociali sensibili come le checche
isteriche, i preti pedofili e tua madre.
Non c’è dubbio che, anche se avrete già sentito geniali
guizzi prosaici come “Ti apro il culto” o “Padre Mostro”, titoli di
alcune tracce di TG1, il primo disco, di certo non vi sareste
aspettati che lasciassero l’aula della scuola media in cui erano nati. O
il cortiletto in cui vi facevate le canne.
Questo Michael Moore di Satana viene da Recanati, città
che tutti voi ricorderete sin dalla più tenera età per essere stata
teatro delle vicende di celebri poeti (parlo ovviamente di Maria Alinda
Brunacci Bonamonti), e sente di essere un cambiamento di paradigma
nell’approccio artistico contemporaneo. Ma forse è solo che la
peperonata gli è rimasta sullo stomaco. Perché, frateli e sorele, io
quando sento parlare di revoluscions concettuali, già comincio ad
incazzarmi e a chiedermi per quale motivo, invece di sbrodolarsele
addosso, non me le facciano vedere e sentire, queste note che
sconquassano il sistema ladro di Babylon.
Nelle tracce, campionature come se non ci fosse un
domani: frammenti in loop che si susseguono fastidiosamente a quella
maniera del brutto fatto apposta che tanto piace a voi giovinastri che
non ve la sentite di dire che apprezzate Elio e Le Storie Tese, visto
che hanno fatto uno spot per la Vodafone. Questo è il sound de La Tosse
Grassa e se non vi piace potete anche andarvene affanculo.
Detto questo, devo ammettere che a me il progetto in
questione piace. Per quanto ad un primo ascolto si fosse fatta sentire
forte in me la necessità di rivalutare Marco Guazzone, esaminando le
tracce in maniera ascendente, fino al più recente, “Dramatic Carota”, ho
capito che la Tosse Grassa sta seguendo la sacra via del Fratello Più
Grande.
Mi riferisco a quel fratello maggiore, consanguineo o
meno, che tutti abbiamo avuto: quello che si è drogato pesantemente fino
a diciannove anni, bocciato in quinto ginnasio per aver bestemmiato e
poi vomitato contro la professoressa di greco, che la prima volta che ha
sistemato la sua stanza, ha ricevuto le lodi dei vostri genitori, del
vicinato, e una candidatura a consigliere regionale. Tutto ciò mentre
voi, pescati a ciucciare una Diana Blu come degli eroinomani con altri
quattro sfigati, avete costretto il parentado ad aprire un mutuo per
spedirvi in un centro di riabilitazione sulle alpi svizzere. Capito?
Bastava abituare gli altri al fastidio, ché poi al primo accenno di
miglioramento sembrerà stiate cagando diamanti.
E funziona. La progressiva redenzione musicale de La
Tosse Grassa sta evolvendo verso quello che andrà di moda l’anno
prossimo, quando potrete dire che ormai l’avete tolto dall’iPod perché è
diventata musica da pariolini criptofascisti. E dio solo sa quanto
ringrazierete questo Jabba The Hutt vestito di piume che sbraita
all’autocrazia e all’anarchia musicale su blogspot, mentre pubblicizza
il primo video che è riuscito a caricare su YouTube e le magliette “La
Tosse Grassa” fatte col ciclostile solo-dieci-euri.
Insomma, alternativi, io vi adoro.
Se non vi è piaciuto l’articolo, sticazzi. Davvero.
Io oggi ho già scritto uno stato divertente sulla festa
della donna, di quelli che ricevono più di sessanta “Mi piace” (e,
considerato che nessuno nutre la segreta prospettiva di scoparmi, mi
sembra un numero abbastanza elevato), quindi posso ritenermi
soddisfatto.
Ringrazio Campidilimoni Tokinawa per la segnalazione.
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